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Immagine del redattoreElisabetta Giuliani

La nostalgia degli Altri, una distanza d'Amore.

Che tempi strani, quelli che stiamo vivendo. Cosa vogliono da noi? Cosa ci chiedono di fare? Eravamo fuori e ci sentivamo vuoti. Ora siamo dentro, e le cose ci invadono con la loro pienezza. Il modo in cui ciascuno di noi fa esperienza della distanza, o meglio delle distanze, è un fenomeno oscuro e assai complesso. Ci dice molto della nostra natura umana e rimette sul piatto della bilancia una questione assoluta: la responsabilità dell'Altro.

Intorno agli anni Sessanta, in America, l'antropologo Edward T. Hall ha condotto un esperimento scientifico con lo scopo di studiare la cosidetta distanza culturale, ovvero il significato che le società attribuiscono al modo di vivere lo spazio abitabile, di gestire il processo comunicativo tra due corpi o di definire l'intimità, in base alle loro specificità etniche e culturali.


Nasceva cosi la prossemica, una vera e propria scienza delle distanze. Da queste ricerche, risulta ad esempio che i popoli nord-europei sono più esigenti in termini di privacy rispetto a quelli mediterranei, oppure che il semplice spostamento di un mobile assume significati più profondi se avviene in una casa giapponese anziché in una americana...


L'approccio "prossemico" mette quindi fortemente in discussione l'idea che tutti gli esseri umani, siccome dotati della stessa fisiologia, - per intenderci di due occhi, due orecchie, due gambe - debbano condividere gli stessi identici mondi sensoriali. La prossemica ci insegna che lo spazio puo' "parlare" di volta in volta lingue diverse, andando a rappresentare tutto un mondo, uno schema di valori.


Ecco perché, ad esempio, è in Italia, e non in Francia o in Cina, che una delle primissime reazioni al confinamento dovuto all'emergenza COVID-19, sia stata quella di ristabilire creativamente il legame sociale, di reinventare la "piazza pubblica" attraverso spontanee iniziative popolari, come i FlashMob al balcone.


Eppure, nonostante le varie differenze culturali, esiste un modo di intendere la distanza - e parlo qui della cosidetta distanza vissuta - che è trasversale a tutti i popoli, a tutte le culture. Direi anche a tutti i periodi storici.


In "Essere e Tempo", Heidegger analizza quella modalità peculiare dell'esistenza che è l'essere-nel-mondo, distiguendola dall'essere semplicemente presenti. E' qui che sta tutta la differenza tra gli uomini e le cose, tra i corpi fisici, insomma, e la Coscienza.


Una sedia sta nello spazio. La sua è presenza spaziale. L'Uomo, invece, non solo è presente in un dato luogo - con il suo corpo fisico - ma a quello appartiene. Gli uomini sono ontologicamente nell'in-essere, dove "in" deriva da innan-abitare, habitare: sono abituato, sono familiare con, sono solito a...


L'espressione "io sono" è quindi intimamente connessa a "presso". Io abito, io soggiorno presso quel luogo che mi è familiare.


Il mondo conosciuto è quello spazio in cui si realizza pienamente il mio In-Essere.

Abitare un luogo significa, quindi, essere in un rapporto di familiarità con esso e con le cose che lo riempiono. Un buon esempio è la casa: i nostri passi sanno sempre dove muoversi a casa, conoscono la strada, i mobili sono disposti in un modo che ha senso per noi, le persone che vi abitano sono a noi vicine e care.


Anche loro, come noi, hanno ritagliato nella vastità anonima del mondo una piccola dimensione spaziale e ne hanno fatto la loro "casa".

Ecco perché "sentirsi a casa" non vuol dire tanto stare, essere presenti in un dato luogo geografico, ma sentire le cose attorno a sè come "vicine, sicure e familiari". E abitare vuol dire anche prendersi cura di tutto questo, garantirne la durabilità nel tempo.


Allora il panico, il più grande corto-circuito di questi ultimi mesi, è stato proprio rendersi conto che questo "mondo-ambiente" non era più la casa accogliente, ma un universo ostile e "ammalato" che richiedeva di riprogrammare tutta la nostra intenzionalità progettante.


La malattia ha creato nuove distanze, ha distorto la prossemica delle cose. Cos'è vicino, oggi? Cos'è lontano?


Siamo tutti chiamati a fare un esercizio difficilissimo che è quello di ridefinire il nostro "In-Essere"e di disallontanare la Realtà, ovvero far scomparire la distanza oggi insopportabile e penosa tra noi e il mondo là fuori.


In certo senso, questo tempo di pausa, di distanza e di confinamento forzato sfida la nostra umana capacità di avvicinare. Di creare mondi.


E quale potrebbe essere il motore di tutto questo? Qual è, da sempre, quella cosa.... che move il Sole e l'altre stelle?
L'Amore.

Non è forse l'incontro/scontro con l'Altro - per l'Altro! - che determina e riconfigura da sempre lo spazio attorno a noi? Abbiamo un'atavica nostalgia degli altri, del mondo com'era prima che lo perdessimo di vista - e questa consapevolezza, già latente da un po' di tempo, sta venendo fuori con grande prepotenza proprio in questo momento. Merito e privilegio dei tempi di crisi. Potere cartartico della malattia.


Come sosteneva Lévinas, la prossimità che mi lega all'Altro mi lega, in realtà, a un perfetto sconosciuto. Un estraneo, uno straniero. (In francese, étrange/étranger è lo strano/straniero).


Nella prossimità, l'assolutamente altro, l'Estraneo che "non ho né concepito né partorito", l'ho già in braccio, già lo porto, secondo una formula biblica, "al collo come una balia porta un bambino lattante". (Levinas)

Ed è quindi una forma di Amore assoluto, universale e fraterno, questa nostalgia degli Altri che ci spinge ad occuparci del perfetto sconosciuto, a sentirne la responsabilità. L'Altro sono io. Inconcepibile, imprevedibile.


E questo modo particolare di amare l'Altro, responsabilmente, di disallontanarlo da noi è prima di tutto una compromissione etica. Più contagiosa di qualsiasi virus.


Per Lévinas, l'Altro ci sfuggirà sempre, la sua comprensione ci è impossibile. Quello che di lui rimane è il mistero del suo "volto".


Noi incontriamo l'Altro sempre a partire dal disfacimento della sua faccia, ovvero dalla "caduta delle maschere".

E mi piace pensare a quanto l'Universo sia, a volte, cosi ironico e renda questi tempi ancora più paradossali: il volto dell'Altro è ormai disfatto ai nostri occhi, pronto all'incontro, eppure indossa una maschera. O meglio una mascherina.



La responsabilità dell'Altro risolve l'enigma della nostalgia. Siamo tutti presenti, tutti nelle stesse distanze prossemiche, consegnati gli uni agli altri senza difese, in totale nudità.


Che tempi strani, quelli che stiamo vivendo, dicevo prima. Ci mettono in ostaggio degli altri.

Ed è la cosa migliore che ci potesse capitare.

 

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A proposito di NOSTALGIA e del senso del ritorno



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